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Il regista iraniano Rasoulof presenta ‘Il seme del fico sacro’ e ringrazia Cecilia Sala

Roma, 22 gennaio (di Giulia Lucchini)- “La rivoluzione non passa per la violenza e infatti nella rivolta in Iran le donne la rigettano, c’è un movimento civile per cambiare la situazione in modo pacifico”. Così il regista Mohammaad Rasoulof che con ‘Il seme del fico sacro’, dal 20 febbraio in sala con Lucky Red e Bim Distribuzione, racconta l’Iran contemporaneo. Siamo a Teheran e Iman (Misagh Zare) è stato promosso a giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria, nel frattempo scoppia il movimento di protesta popolare a seguito della morte di una giovane donna.

Regista dissidente in fuga dal suo paese dove è ricercato e dal quale è espatriato clandestinamente e nel quale è stato prigioniero in isolamento per ben 40 giorni, tra l’altro nello stesso carcere di Teheran dove è stata reclusa Cecilia Sala, Rasoulof dopo il suo ultimo film ‘Il male non esiste’ (2020), Orso d’Oro a Berlino, torna a distanza di quattro anni con un nuovo lungometraggio. “Voglio ringraziare Cecilia Sala che si è presa il rischio di andare in Iran per vedere da vicino quali erano le esperienze delle donne in Iran in questo periodo. Sono stato due volte nella sua stessa prigione e penso che sia ancora più difficile vivere una situazione del genere per una persona europea che non è preparata alle difficoltà del nostro paese. Anche nel mio film, nel modo in cui ho raccontato la famiglia, ho provato a riflettere su quel che avviene in prigione”.

Presentato allo scorso Festival di Cannes e vincitore del Premio Speciale della Giuria, ‘Il seme del fico sacro’ rappresenterà la Germania agli Oscar. “Gli ultimi 46 anni della storia iraniana dall’avvento della Repubblica Islamica sono pieni di eventi molto difficili che non sono ancora stati raccontati- dice Rasoulof-. Nelle prime decadi della Repubblica Islamica sono state giustiziate migliaia di persone e fino ad oggi nessun regista iraniano è riuscito a raccontarlo. Il giornalismo in Iran è un mestiere difficile. Non è permesso documentare le manifestazioni e le proteste, ma sono gli stessi cittadini che condividono i video che filmano con i loro telefoni cellulari. Cinque anni fa, quando non avevo il passaporto e mi era impossibile lasciare il paese, ho pensato di fare questo film con del materiale d’archivio. Siamo in un mondo interconnesso, anche sui social, e questo mi dà speranza che le storie dell’Iran possano arrivare al di fuori del paese e tenere informata la popolazione mondiale su quello che sta succedendo”.

Le donne, interpretate da Mahsa Rostami, Soheila Golestani e Setareh Maleki, sono motore del cambiamento nel film. “La lotta per i diritti delle donne in Iran ha radici molto profonde. E questo è solo l’ultimo anello di questa lunga catena. La loro lotta non porta avanti solo i loro diritti, ma quelli umani in generale ed è portata avanti anche da tanti uomini come me. In Iran ora c’è un movimento civile per cambiare la situazione in modo pacifico. Purtroppo il potere politico cerca ogni occasione per reprimere le donne e le persone. Al momento c’è una vera e propria guerra tra le donne e la società civile da una parte e la repubblica islamica dall’altra. Due mesi fa il Parlamento ha mandato in approvazione una nuova legge sul modo di vestire delle donne, e il governo si è tirato indietro e non ha voluto approvarla: non perché non voglia, ma perché non può”.
Ci sono state ritorsioni sul cast? “Tutti sono riusciti a lasciare il paese, alcuni clandestinamente, altri no. A parte Soheila Golestani, che interpreta la madre, che ora sta in Iran. Attualmente c’è un processo giudiziario in corso nei confronti di tutti quelli che hanno preso parte al film: siamo accusati di propaganda contro il regime, attentati contro la sicurezza pubblica, diffusione della prostituzione e della corruzione sulla terra. Io verrò sentenziato in contumacia”.

Sul movimento “Donne, vita e libertà” dice: “Ero in prigione da vari mesi per via di alcuni film che avevo fatto quando è iniziato questo movimento. La prima cosa che ho fatto quando sono uscito è stata fiondarmi a vedere i video che non avevo potuto vedere fino a quel momento. Sapevo che avrei fatto il mio film clandestinamente in un piccolo appartamento e quindi non sapevo come potevo ricreare le scene di protesta. Poi ho pensato che le scene raccolte dai social dagli attivisti andavano più che bene perché avevano la forza cruda della realtà”.
E sul finale del film: “Volevo mostrare la lotta tra tradizione e modernità. In Iran siamo sempre sotto l’ombra di un potere religioso. La cultura iraniana è stata comunque molto più ricca rispetto a quello che il sistema attuale vuole mostrare”.

Mentre su una possibile fine del dramma che sta vivendo il suo paese dice: “Il regime alla fine si autoseppellirà e sprofonderà nella propria tomba. Penso a un fatto di cronaca recente: negli ultimi giorni, in Iran, due dei più famosi-infami giudici iraniani, che hanno condannato tantissima gente, sono stati uccisi da un ufficiale di basso rango. Questo dimostra che alla fine chi semina vento raccoglie tempesta”. E sulla violenza: “Non invoco la resistenza armata, ma talvolta prendere un’arma in mano è un atto di autodifesa”.
Infine sul futuro e sugli attuali cambiamenti geopolitici conclude: “Non sono in grado di fare previsioni politiche. Posso dire che la Repubblica Islamica è più fragile e ha perso terreno. Mi auguro che questi grandi cambiamenti portino la libertà che desidero”.

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