Roma, 24 ottobre- “Quando ho incontrato questa storia mi si è accesa la lampadina”. Così Luca Zingaretti passato dietro alla macchina da presa come autore e regista con ‘La casa degli sguardi’.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma, il film racconta la storia di Marco, interpretato da Gianmarco Franchini, un giovane ventenne molto sensibile, che scrive poesie e che cerca nell’alcool e nelle droghe “la dimenticanza”, quello stato di incoscienza impenetrabile anche all’angoscia di esistere e di vivere. Marco beve troppo, è in fuga dal dolore, ma soprattutto da sé stesso). Per vivere si deve anestetizzare, dice.
“Non ho mai deciso di voler fare una regia- prosegue Zingaretti-. È un desiderio che mi è nato parecchi anni fa perché la mia storia nasce come attore teatrale. Negli anni frequentando i set e con tanti registi che mi chiedevano una collaborazione mi sono cambiate le cose. Questa storia, ispirata all’omonimo libro di Daniele Mencarelli (Mondadori), mi ha colpito perché narra la rinascita di una persona e la sua capacità di rimettersi in piedi e poi la gestione del dolore in una società molto performante. L’importanza di un’amicizia, di un amore, della genitorialità, tutto questo seguendo la storia di un ragazzo senza dare un finale perché del domani non c’è certezza. Ho incentrato il racconto sulle inquietudini di un essere umano. Il mio protagonista ha una sensibilità esagerata e poi scoprirà che il dolore che vive non è evitabile. Il dolore non si deve evitare si deve accogliere. Bisogna stare nelle cose, non fuggirne”.
Un’inquietudine che come sottolinea il regista: “Si può trovare in qualunque giovane. Anzi la devono avere gli adolescenti. Un ragazzo deve necessariamente liberarsi allo status quo e liberare il suo desiderio di essere visto. Questo è reso oggi ancor più drammatico da quello che il mondo sta vivendo. Penso oggi all’emergenza climatica, alla tecnologia, alla grande migrazione che sta arrivando. Una persona che deve immaginare il proprio futuro è ovviamente spaventata. È la prima generazione che non pensa che il proprio futuro sia migliore di quella che hanno vissuto i propri padri”.
“Ho preso tutti i miei attori al primo colpo, non sapevo neanche che Gianmarco Franchini aveva già lavorato per Sollima”, dice. E Gianmarco Franchini: “Già dalla descrizione del personaggio mi ero appassionato, poi ho letto il libro. Avevo paura perché è un personaggio con la pelle talmente sottile che basta un fiore a bucargliela. Quindi ho cercato di capirlo e sentirlo dentro. È stato bellissimo e profondo. L’ho immaginato come un’anima pura da proteggere. Lui cerca in primo luogo di proteggere sé stesso. Sono quelle persone che vanno protette perché hanno una sensibilità diversa. Con Luca c’è stata una particolare empatia”.
E ancora Zingaretti: “La difficoltà maggiore è stata quella di cercare di stare costantemente alla larga dall’emozione facile e dal melò e di andare in un territorio che sinceramente mi interessava poco. Il mio film parla anche del lavoro che è fondamentale perché ti radica. Uno si definisce attraverso quello che fa nella vita. Quando uno è a casa disoccupato il dramma è anche che non sa più cosa sia. Il lavoro significa fare i conti con gli orari le regole il rispetto degli altri. Lui il primo sorriso lo fa quando pulisce il bagno pieno di feci. È questo il potere salvifico del lavoro. Il lavoro ti definisce”.
Infine conclude: “Sono stato avvantaggiato dalla mia esperienza di attore perché sapevo esattamente cosa volevo. Questo è un film che lavora in sottrazione, sul silenzio. Il cinema è fatto del lavoro di tante persone e ognuno apporta qualcosa. C’è un capitano, ma senza il lavoro degli altri non è niente”.