Venezia, 31 agosto 2024 – Marco Bellocchio ha ricevuto il venticinquesimo Premio Robert Bresson, in occasione dell’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il riconoscimento, conferito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dalla Rivista del Cinematografo con il patrocinio del Dicastero per la Cultura e l’Educazione e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, è assegnato a un regista che abbia dato una testimonianza significativa, per sincerità e intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale della vita.
A fare gli onori di casa, il presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco: “Nella banalità, nell’ovvietà, nella dimenticanza del guardare c’è un innesto, che è il senso stesso dell’arte: il saper vedere, il saper costruire. È un grimaldello che l’arte cinematografica ci offre per affrontare il passaggio dall’orizzontale, la condizione su cui tutto diventa superficie, alla profondità dell’elevazione. È importante affinarsi nell’esercizio di scoprire quel che nell’invisibile si mostra visibile. E nell’immaginarlo in un’opera d’arte, qual è un film, la maestria di Bellocchio ci costringe a un’attesa”.
E il direttore della Mostra del Cinema, Alberto Barbera, da sempre vicino al Premio Bresson (“C’ero alla prima edizione, un piacere che ci sia questa tradizione che lega l’Ente dello Spettacolo alla Biennale”), nonché legato a Bellocchio da antica frequentazione: “Ero giovanissimo, sognavo di occuparmi di cinema, lessi una sua intervista: c’era anche una sua foto, indossava un parka militare. Così, la prima cosa che ho fatto a Torino da universitario fu comprare un parka come il suo al mercato delle pulci, sperando mi portasse bene”.
A introdurre il premio, Davide Milani, presidente dell’Ente dello Spettacolo e direttore della Rivista del Cinematografo: “La nostra presenza a Venezia è attraversata da una domanda: qual è l’immagine mancante? La Mostra ha risposto a questo interrogativo, componendo un mosaico di immagini che raccontano le tensioni del nostro tempo, parlano al cuore dell’uomo e alla sua anima”.
Milani ha condiviso la lettera inviata da José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione: “Bellocchio è un genio creativo il cui lavoro segna una traccia importante nella storia del cinema. Fin dai suoi esordi, ha dimostrato una straordinaria capacità di esplorare la complessità dell’animo umano attraverso una lente cinematografica unica, incisiva e riconoscibile. Le sue opere penetrano nelle profondità delle questioni sociali, politiche e morali, sfidando spesso convenzioni e pregiudizi, mettendo in risalto la libertà delle scelte umane tra le macchinazioni della Storia”.
Con il Premio Robert Bresson il nome di Marco Bellocchio viene accostato a quello di un campione del cinema della credenza come il cineasta francese perché, come si legge nella motivazione: “La realtà così com’è non basta, sembrano suggerirci entrambi. Bisogna aprirla con il bisturi del cinema perché possa sgorgare l’invisibile, che si manifesta come mistero di luce e di ombre. Sul piano inclinato delle macchinazioni della Storia – ricca di accenti escatologici in Bresson, più terreni in Bellocchio – il cinema di questi due giganti non scivola mai ma risale, cercando quella libertà che vince ogni gravità, fino alla morte. Ed è la croce la chiave di volta iconografica che sorprendentemente sospinge entrambi: là dove lo schermo si incurva nel bagliore della Grazia, in Bresson. Nella vita che si schioda, liberata dalla preghiera di un bambino, in Bellocchio”.
A consegnare il premio, Giuseppe Tornatore, che nel 2000 fu il primo regista a ricevere il riconoscimento: “All’epoca rimasi sorpreso, non capivo perché mi avessero scelto. Mi spiegarono che il motivo non era il complesso della mia opera ma un film specifico: Una pura formalità. Allora capii: fu un bellissimo onore e lo è ancora di più venticinque anni dopo”.
E l’occasione è ancora più preziosa per una questione personale: “Era il 1983, stavo realizzando un documentario sul rapporto tra Pirandello e il cinema. Andai da Bellocchio, che stava montando Enrico IV. Per darmi un’aria da cinefilo, gli feci notare che da quell’opera erano già stati tratti due film. Lui mi sembrò un po’ irritato e mi disse: a volte capita che un regista non sappia bene cosa fare. Evidentemente scherzava, poi proseguì l’intervista in modo molto rigoroso. Ho amato tutti i suoi film, addirittura Nel nome del padre l’ho visto quando facevo il proiezionista”.
Nel ritirare il riconoscimento, realizzato da Pianegonda, Bellocchio non nasconde l’emozione e l’ironia: “Per la mia formazione cattolica, diffido quando si parla di geni, ma accetto il premio molto volentieri. Non sono cattolico ma la dimensione spirituale e la tensione verso l’invisibile sono elementi propri dell’arte cinematografica. Dobbiamo in tutti i modi cercare un dialogo tra chi crede e chi non crede, senza combattersi. La situazione mondiale annuncia una catastrofe, dobbiamo impegnarci a ricordare tutto ciò che abbiamo imparato da piccoli: volere bene al prossimo ed essere tolleranti, cercare di capirsi e trovare un terreno comune per far fronte alle brutture del mondo. Mi viene in mente una delle ultime riflessioni di Cesare Pavese: ‘Tutto crolla, la gente ha ricominciato a morire’. Si riferiva alla guerra in Corea, che arrivava dopo la seconda guerra mondiale, quando tutti eravamo convinti di aver chiuso con i conflitti”.
Intenso il suo rapporto con Bresson: “Da studente al Centro sperimentale rimasi sconvolto dal suo rigore e dalla sua essenzialità. Un condannato a morte è fuggito è stato un mio punto riferimento: c’è la lotta contro disperazione, la resistenza per conquistare la libertà. Un messaggio che vale per cattolici e laici”. E conclude: “Non mi sembra molto diffuso il desiderio di autenticità, ma tra tanti giovani stritolati dal sistema esistono molte eccezioni che ci sorprendono e ribaltano lo sguardo pessimista. In un panorama così terribile, ci sono reazioni forti che arrivano da questi spiriti che vogliono ribaltare le cose”.