Venezia, 2 settembre- “Alcuni elementi drammaturgici come gli incendi o i black out potrebbero sembrare distopici ma vivendo a Roma non lo sono affatto. Dopo le esperienze all’estero e la prolungata assenza,
volevo raccontare Roma perché mi era mancata. Ovviamente l’ho trasfigurata e gli elementi naturali sono funzionali alla drammaturgia”. A parlare è Stefano Sollima che ha presentato in concorso a Venezia 80. il suo Adagio. Scritto a quattro mani insieme a Stefano Bises e prodotto da Lorenzo Mieli per The Apartment, Vision Distribution, Alterego, in collaborazione con Sky, in collaborazione con Netflix, e nelle sale dal 14 dicembre con Vision Distribution, il film vede protagonisti Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini, Gianmarco Franchini, Francesco Di Leva, Lorenzo Adorni e Silvia Salvatori.
Siamo in un mondo quasi apocalittico con diversi gangster. Manuel (Gianmarco Franchini), un ragazzo di sedici anni, cerca di godersi la vita come può, mentre si prende cura dell’anziano padre. Vittima di un ricatto, va a una festa per scattare alcune foto a un misterioso individuo ma, sentendosi raggirato, decide di scappare. Si ritrova così inseguito dai ricattatori che si rivelano essere estremamente pericolosi e determinati a eliminare quello che ritengono uno scomodo testimone. Manuel capisce di essere invischiato in qualcosa che è più grande di lui e sarà costretto a chiedere protezione a due ex-criminali, vecchie conoscenze del padre.
“Questo è un film sentimentale, ma non intimo”, prosegue il regista, che dirige l’ultimo film della trilogia. “Spero di continuare a fare il mio lavoro. Il genere che ho trattato continuerà a piacermi. Non è la chiusura della mia carriera. Ma è la chiusura di una trilogia su Roma vista e traslata in chiave criminale. Questo è un racconto sulla decadenza del crimine. I personaggi appartenevano alla Banda, ma solo per dargli un collegamento mitologico. Non c’è un collegamento diretto”.
“Stefano ha un immaginario molto chiaro e limpido che però si evolve- dice Adriano Giannini-. Con lui è sempre un lavoro in divenire. Tutti noi attori abbiamo fatto un lavoro sul corpo. Questo tipo di linguaggio che ha scelto ci obbligava dare uno spazio fisico per entrare meglio in quell’immagine che percepivamo”. E Toni Servillo: “Il mio è un personaggio che recita nella recita e questo è particolarmente affascinante per un attore. Sono dei criminali che hanno vissuto dentro certe regole. Si racconta la storia di alcuni uomini che fanno i conti con loro stessi. Stefano mi ha molto aiutato sul recitare in romanesco perché io avevo qualche perplessità”.
Infine Pierfrancesco Favino: “Sono al terzo film con Stefano e è sempre bello essere nel gioco di invenzione dei suoi film. C’era un dato personale e storico ovvero l’appartenenza alla banda. Ma si voleva anche costruire un personaggio quasi grafico. Io per interpretare questo personaggio ho sempre pensato a dei cani randagi nella polvere abbandonati in un angolo. Sono come delle falene impazzite. Mi piace il suo cinema perché non esiste Dio. È uno dei pochi registi punk e non c’è mai redenzione. Stefano non racconta storie di bene o male. Il messaggio più bello è che gli errori dei padri non ricadono sulla testa dei figli. Perché per fortuna i figli sono in grado di fare le proprie scelte”.
crediti: Emanuela Scarpa